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Shubnum Khan è la nuova Isabel Allende o Alice Hoffman per la sua scrittura appagante e piena d’incanto. In “Lo Spirito aspetta cent’anni” edito da Neri Pozza racconta una storia d’amore e mistero, dove i personaggi fremono di rabbia.

La primavera è giunta, ridono i boccioli in fiore,

io piango il mio destino in questa casa oscura….”

dal “Lamento dell’uccello” di Allamah Muhammad Iqbal

“Lo spirito aspetta cent’anni”, ovvero l’attrazione per una vita vissuta tra passione e sofferenza.

Quest’anno il romanzo di Shubnum Khan è arrivato sulla mia scrivania, grazie ad un consiglio da parte di una persona che ha amato questo libro, e desiderava una condivisione di pensiero. Ed è stato subito un coup de cœur. Non avevo idea di chi fosse la scrittrice, né che sarebbe riuscita ad affliggermi e interessare così tanto.

Un romanzo che diventa come un buon vino che si assaggia, ti fa meditare e lo desideri ancora di più fino ad accorgerti che è finito.

Shubnum Khan

Shubnum Khan è una scrittrice sudafricana, portentosa, la sua penna riesce a coinvolgere il lettore fin dal primo rigo, ed è capace di raccontare le relazioni, la crescita, la vita, con le sue bellezze e le sue disarmonie, ispirandosi ai quei grandi romanzi vittoriani, dove in modo accentuato si scava all’interno di ogni personaggio, nel periodare avventuroso e multiforme. E questa sua capacità ci dona una trama che si evolve proprio come un libro dickensiano.

I suoi personaggi si muovono inermi di fronte a traumi che subiscono, ed io li ho seguiti con il fiato sospeso e certe volte con le lacrime agli occhi.

La disperazione e lo smarrimento che impregnano in ogni singola pagina sono ingredienti infallibili per chi ama un racconto di fantasmi, d’amore e mistero.

Soprattutto, per chi vuole empatizzare con personaggi rotti, che cercano di fare i conti con il proprio passato, le proprie paure. In questo caso all’interno una villa dai vecchi fasti chiamata Akbar Mazil in una rovente Durban, città costiera conosciuta per le sue influenze africane, indiane e coloniali.

@KV-MG

In questa tenuta maestosa, i personaggi si muovono in territori conosciuti ed altri gran parte inesplorati, dove tra la polvere si trovano oggetti dimenticati, porte sbarrate che celano ricordi e segreti, costringendo ogni soggetto ad elaborare un proprio pensiero, anche quando vorrebbe sfuggire alla cruda visione della propria realtà, per arrivare a comunicare al lettore, che la verità è sempre vicina. E soprattutto, che noi non siamo soli in questo mare sconosciuto, che è la vita, ma che dobbiamo contemplarla per continuare a sperare in un futuro.

Sana, ragazza adolescente, protagonista del romanzo, segue il padre nell’ennesimo nuovo indirizzo scelto per elaborare il dolore, per la perdita di sua moglie. E qui che Sana incontra la storia di Meena, una giovane donna morta quasi cent’anni prima in circostanze misteriose, e il suo sogno d’amore, fino ad arrivare quasi vicina alla verità celata, risvegliando da un lungo sonno quella sua ombra impalpabile che cambierà le sorti della villa, sia per i vivi e sia per i morti.

@donald-giannatti

Ritrovare l’amore e il dolore nelle pagine di un libro, ci fa dimenticare per un po’ il nostro tempo, ma ci porta anche a condividere le nostre gioie e in nostri dolori.

 E l’esordio letterario di Shubnum Khan non è solo dedicato a tutti noi, ma è una sorta di psicoanalisi per curare la nostra sofferenza. Tra queste pagine troviamo diversi passaggi indimenticabili che sono terapeutici: dobbiamo imparare a perdonare, dobbiamo capire che le relazioni non nascono a nostra immagine, e dobbiamo essere disposti a comprometterci, per condividere i territori di ciascuno.

@jyotirmoy-gupta

Shubnum Khan riesce nell’impresa, e tramuta il dolore di una perdita in un esercizio di stile. Per comprendere ciò, ora vi basta leggerlo e sottolineare qualche riga per farla entrare come inchiostro sulla propria pelle, scritte sul corpo.

Di Alberto Corrado