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Tra realtà e invenzione. Marta Lamalfa racconta un’isola siciliana tra carne e sangue, tra sogni e aneliti di libertà. Un cantico indimenticabile.

“Si sente tutto emozionato, Nardino, perché è la prima volta che si mette le scarpe….”

Marta Lamalfa

 

Raccontare la storia di una donna deve sempre essere al vero.

Marta Lamalfa in “L’isola dove volano le femmine” edito da Neri Pozza sceglie di intrecciare realtà e mistero, restando fedele ai personaggi, che diventano attori principali del suo romanzo

Ma soprattutto per rappresentare l’interiorità, quasi impalpabile, ha bisogno del suo correlativo oggettivo: dunque un’isola (Alicudi) e le case dove abitano, le spiagge dove nuotano, gli oggetti di cui sono circondati, e gli innumerevoli animali domestici e anche selvatici.

@giuseppe gallo

Si tratta di un libro- conversazione, che inizia e si conclude conversando, che tratta temi alti, amori sventati, e giudizi letterari con una naturalezza apparente, che è poi il vero dono di una vocazione letteraria, riportando alla luce un fatto storico dimenticato, riportato alla cronaca da un articolo di Andrea Strafile “In questa isola siciliana il pane provocò allucinazioni di massa per anni” – Vice.com 2021.

Un articolo che riportava gli studi antropologici di Paolo Lorenzi, secondo il quale, fra il 1903 e il 1905, la segale di Alicudi fu infestata da un fungo parassita, il clavicens purpurea, meglio noto come ergot. Nell’ergot è presente l’acido lisergico, l’ingrediente base di LSD.

Secondo l’antropologo Paolo Lorenzi, la segale contaminata definita comunemente, “segale cornuta”, tizzonare nel dialetto siciliano, chiamate così per le escrescenze di colore nero, fu abbondantemente utilizzata dagli abitanti per fare il pane, base dell’alimentazione di quegli anni. Mangiando il pane nero, l’isola avrebbe vissuto un’allucinazione collettiva.

Gli abitanti vedevano fantasmi, sentivano rumori di catene, parlavano di pietre pomici che piovevano dal cielo, tale che intorno agli anni Sessanta, la chiesa locale dichiarò il pane nero “pane del diavolo”. E con il tempo, la segale cornuta, sparì dall’isola, insieme a queste storie.

La parte più ispirata del romanzo, è quella della adolescenza di Caterina e della perdita della sorella gemella Maria: lei è quella che lavora nei campi con il fratello e il padre, che consegna le acciughe sotto sale, e aiuta la mamma con le fatiche di casa, aspettando il suo giorno preferito, quello in cui tutti si riuniscono per impastare il pane.

Quel pane aspro è l’unico cibo, che viene buttato giù a morsi duri, che ha l’odore della morte.

Forse in quei bocconi grami c’è la chiave per scappare da un presente sempre più solitario e amaro, e raggiungere le majare, le streghe che vivono sull’isola e si librano in cielo, libere di pensare nell’ala scura della notte.

Una esistenza la sua, tutt’altro che incolore: amicizie karmiche, avventure di rivelazioni sul mondo di una ragazza inquieta, che dovrà scegliere tra la realtà e il sogno.

Però l’immagine di tenerezza più autentica è quando il fratello Nardino si mette le scarpe per la prima volta, per andare a studiare alle scuole di Lipari, accolto da una zia Lina. E un lasciarsi andare al flusso della storia, delle cose, non opponendo resistenza. La felicità di un bambino che aderisce al presente, senza residui e senza calcolo, proprio come un’anima gentile.

Tra le intermittenze affettive, quella Alicudi del 1903 scorrono breve al lettore. E come la vita vera, se sappiamo penetrarla, è misteriosa e spiazzante più delle nostre fantasiose invenzioni, come ci mostra questo romanzo, che contiene un canto antico indimenticabile.

 

Di Alberto Corrado