@mulugeta-wolde-
“La porta delle Lacrime” è il capolavoro di Abraham Verghese, edito da Neri Pozza. Un romanzo di formazione, castigo e redenzione.
“E poiché amo questa vita
so che altrettanto amerò la morte.
Il bambino piange
quando la madre lo stacca dal seno destro
ma nell’attimo immediatamente seguente
trova nel sinistro la sua consolazione.”
Rabindranath Tagore, da Gitanjali
Confermo un giudizio dato in una precedente recensione: credo che Abraham Verghese sia una rivelazione letteraria per come scrive.
Mi ha definitivamente convinto con il “La porta delle lacrime” uscito in America nel 2009 ed oggi pubblicato da Neri Pozza, in base a elementi da chiunque verificabili: il suo stile perfetto, la sua capacità analitica dell’animo confuso, ribelle della storia e dei suoi personaggi. Non solo, eccezionali sono anche le incursioni negli sprazzi di coscienza impotente, che gorgoglia in alcuni di quei soggetti, talvolta feriti dalle loro pessime vicissitudini, colpisce, e strazia la sua totale empatia con il loro dolore o viceversa con la loro totale inconsapevolezza o per i loro barlumi di pensiero.
Abrahm Verghese medico, docente e vicepresidente del Dipartimento di Medicina presso la Stanford School of Medicine. Dopo essersi diplomato alla Iowa Writers’ Workshop, nel 1994, ha scritto altri titoli come “Own country”, finalista al NBC Award, e “The Tennis Partner”, un New York Times Notable Book e “Il patto dell’acqua” scelto da Oprah Winfrey per il suo Bookclub nel 2023 edito sempre da Neri Pozza, spesso ambientati nel mondo medico che popolava l’inizio del 900.
Il suo capolavoro però è questo “La porta delle lacrime”: una ruvida storia di formazione, un feroce resoconto storico, un racconto quasi dostoevskiano di punizione, ricerca di redenzione, pieno di sensibilità.
Com’è tipico di Abraham Verghese, nel romanzo s’intrecciano vicende. Quella portante riguarda di due gemelli Marion e Shiva che vengono al mondo in una notte dove le rose della direttrice Hirst sbocciano e incorniciano le finestre dell’ospedale di Missing, in Addis Abeba. Rose rosse come il sangue che Suor Mary Joseph, nella sala operatoria, sta perdendo a fiotti mentre cerca di dare la luce i due gemelli. Poi la storia silenziosa quasi telepatica che lega Suor Mary Joseph, giovane indiana dagli occhi profondi, che raggiunge l’ospedale in cerca del Dottor Thomas Stone, chirurgo apprezzatissimo, ma uomo impenetrabile. Una stessa intesa lega i gemelli, due maschietti, che miracolosamente sopravvivono alla madre, morta di parto, e al padre che, sconvolto, fugge abbandonandoli.
I bambini crescono nell’ospedale ed entrambi si appassionano alla medicina e alla stessa donna, tale che Marion, sconfitto lascerà l’Etiopia scossa dai fermenti rivoluzionari per un poverissimo ospedale nel Bronx.
Poi la storia di una lettera nascosta e di una immagine “L’Estasi di Santa Teresa” del Bernini che diventa un vero enigma toccante.
Abraham Verghese padroneggia in queste tre vicende e una dozzina di personaggi, senza mai perdere la tensione dell’intreccio, che trovo sia una impresa di cui non trovo l’eguale nella attuale letteratura d’intrattenimento.
Poi la scrittura. Abraham Verghese ha come dote la naturale grazia. C’è chi nasce pianista, chi designer, lui è nato per farci scoprire, con un sorriso, talvolta amaro, l’inatteso grottesco delle situazioni della vita, l’orrore di chi calpesta gli altri senza nemmeno girarsi, e l’amore, forza sconosciuta, capace di distruggere, ma anche di rimetterti completamente in gioco.
Di Alberto Corrado