Dal 20 settembre fino al 21 gennaio 2024, è stata aperta al pubblico a Palazzo Reale a Milano la mostra “Jimmy Nelson. Humanity”.
65 lavori appartenenti ai cicli più famosi della produzione di Jimmy Nelson che documentano l’evoluzione creativa di uno dei fotografi contemporanei più noti a livello internazionale.
“Il nostro prossimo è tutto ciò che vive”
Mahatma Ghandi
Se volessimo fare uno slancio iperbolico, potremmo affermare che il primo fotografo della storia è stato Michelangelo da Merisi, detto il Caravaggio, per quel concetto della luce nei suoi dipinti al taglio della composizione, ponendolo in anticipo rispetto ai suoi contemporanei e rispetto ai tempi.
La fotografia, invece come la intendiamo noi, è nata ufficialmente nel 1839-40, che si è rapportata a quella visione caravaggesca che rifiutava di rappresentare la realtà come dovrebbe essere, bensì riproducendola esattamente com’è, quello che poi continuiamo a vedere adesso negli scatti d’autore, nei nostri giorni.
Quell’attimo decisivo a cui spesso fa riferimento Henri Cartier Bresson, o lo stesso Ferdinando Scianna, che lo descrive come salva istanti di vita, che oggi con l’avvento di quasi cinque miliardi di cellulari con fotocamera integrata che producono oltre mille miliardi di scatti, ha eroso l’attività professionale, facendo scomparire o quasi la figura del fotografo.
E allora con il senno di poi, la missione di Jimmy Nelson, nato in Inghilterra, è vista anzitutto come salvaguardia di questa disciplina artistica.
Ed è molto curioso venire a sapere che il suo primo viaggio da viandante nel mondo sia stata mosso dal fuggire ad un’infanzia e una adolescenza difficile, per ritrovare se stesso, e trovare la convinzione che la bellezza sia uno strumento per trovare la verità.
A soli diciassette anni andò in Tibet, dove incontrò i monaci che condividevano la sua stessa condizione fisica, ma anche rinunciavo al proprio ego, come possibilità culturale.
Così sia avviava il viaggio filosofico tra mondi, culture ed esperienze alla ricerca di amore e bellezza, tra i grandi guaritori delle anime sofferenti, tra le comunità indigene custodi della terra e dello sviluppo sostenibile, che vivono da millenni in armonia con la natura.
Le foto degli scatti in Buthan, Etiopia, Tibet, Siberia, Angola e Mongolia sono esattamente la ricerca di questa nuova possibilità nel segno di quel patrimonio di conoscenze e di quella forza resiliente che ci fa accettare il senso del limite, che è la precondizione per smontare la logica della competizione, considerando, come parte del tutto e pensare la natura incorporata nella storia.
E se formalmente il lavoro di Jimmy Nelson ci può ricordare i grandi reporter del passato come Rèhanhn Croquevielle, Manny Librodo o Steve McCurry, è in realtà nel lessico dei ritratti ritroviamo la classicità di Richard Avedon di In The American West, il grande viaggio alla riscoperta dell’Ovest degli Stati Uniti, le differenze come valore più alto possibile di Oliviero Toscani di Razza Umana, ricerca antropologica senza pari, e le vocazioni di outsider di Mike Disfarmer, che poneva l’attenzione su ritratti di piccole città, soprattutto dell’Arkansas.
Tutti fotografi che ho citato, nei loro progetti hanno usato uno sfondo bianco e neutro, che è per alcuni può portare a pensare che è l’esatto contrario delle immagini di Jimmy Nelson, ma se uno pensa esattamente al colore bianco come sintesi di tutti i colori dello spettro visibile, allora si capisce come questo artista usa il paesaggio come una quinta.
Un fondale fotografico, che sceglie e costruisce con cura, proprio come i suoi modelli dietro la camera. Nulla di tutto ciò è casuale, perché ad ogni popolazione indigena ritratta vi è un profondo dialogo, dove la libertà di scelta è la base primaria.
Le fotografie si fanno voce, perché nascono dalle parole che Jimmy Nelson usa per entrare in punta di piedi, chiedendo permesso, ad ogni popolo che vuole mostrarsi davanti alla macchina fotografica.
Lui stesso diventa un regista di una sceneggiatura che già esiste ed è nella sua attenzione e talento diventa ritratto in un’ottica metaforica, spingendosi fino ad un sapore quasi pittorico.
E tanto sono difficili raggiungere i luoghi, quanto più il peso del banco ottico che si carica sulle spalle smette di essere un mero esercizio fisico e inizia ad essere morale, per caricarsi di significato, perché nessuno dettaglio deve sfuggire e solo quel tipo di macchina non può far correre questo rischio.
Dunque una nuova possibilità alla fotografia, che riporta al centro il racconto del viaggio e della esplorazione, defraudando la mistificazione dei telefonini, perché l’arte può uscire solo dalla magia, che ci fa fermare a riflettere, anche attraverso storie lontane.
Riuscire a guardare di nuovo occhi di donne e uomini e trovare facilmente noi stessi, per quel grande spettacolo della vita che ogni giorno ci viene regalato e che dobbiamo vivere con sincera gratitudine e umanità.
Un’altra grande mostra che Palazzo Reale e il Comune di Milano – Cultura dedica alla fotografia in collaborazione con la Jimmy Nelson Foundation, curata da Nicolas Ballario e Federica Crivellaro, per porre l’accento sui temi centrali della modernità, come il rispetto della persona umana, il valore dell’apertura verso esperienze artistiche e culturali diverse e il tema, cruciale e ineludibile, del rapporto equilibrato e sostenibile tra uomo e natura.
Uno scrigno di immagini straordinarie che sono state riunite in un libro edito da SKIRA, per poterle conservare nella propria biblioteca e rivederle per essere interconnessi profondamente con il patrimonio tra di noi.
Info e orari su www.palazzorealemilano.it e www.jimmynelsonmilano.it
Di Alberto Corrado