Lo show di Sylvio Giardina è nel segno della inclusione con un progetto che diventa il culmine di un percorso di ispirazioni e riflessioni sulla cresta del visivo.
“Il più bell’abito che può abbigliare una donna sono le braccia dell’uomo che ama. Ma, per chi non ha la possibilità di trovare questa felicità, io sono qui.”
Yves Saint Laurent
Anche in un sistema come la moda, in cui la corsa alla meta all’evento più speciale è di norma, la sfilata di Sylvio Giardina a Palazzo Farnese, sede dell’Ambasciata di Francia in Italia, per la presentazione della Haute Couture è stata straordinaria.
Al di là della sua oggettiva spettacolarità, a fare da set up era il piano nobile con il suo stile sintetista sangallesca dell’architettura rinascimentale cinquecentesca, a rendere lo show diverso dagli altri era soprattutto il come la Maison sia arrivata a sfilare in un palazzo così ricco di storia, con un progetto site specific /gal-le-rì-a/ ideato dallo stesso Sylvio Giardina.
Il designer non è estraneo alle incursioni nell’arte e questo progetto, che segna il decimo anniversario del brand fondato nel 2013, è stato il culmine di un percorso di ispirazioni e riflessioni sulla cresta del visivo, del rituale, della memoria e della rappresentazione, costellato di installazioni video e performance, tanto da ricordare altri progetti delle passate stagioni come Crochet de Luneville, Vertigo o Frangiamore.
Uno dei sogni di Giardina è sempre stato celebrare il suo Paese e le sue arti come merita. Finalmente con questo progetto ha potuto mostrare a tutto il mondo l’atelier e la metafora della scrittura del ricamo, che collega la vita alla sua dimensione mitica, come medium di un’azione artistica che sublima la metamorfosi e la rinascita di un lavoro, troppo dimenticato.
Una gioia per Sylvio Giardina per essere riuscito nel suo intento, nonostante le difficoltà organizzative, di portare due grandi telai, uno nella Sala dell’Ercole Farnese e l’altro nella Galleria dei Caracci, che aprivano e chiudevano simbolicamente il percorso, scandito dall’incessante lavoro di dieci ricamatrici.
Le strutture dei telai in legno sono state realizzate dalla falegnameria sociale K_Alma, richiedenti asilo e persone in difficoltà economica, mentre le giovani ricamatrici erano delle studentesse dell’Accademia Koefia, scuola rinomata per l’eccellenza nella formazione della lavorazione dell’Alta Moda.
La collezione Haute Couture PE23 è stato il giusto catalizzatore di tutto questo. I ricami facevano la parte da leone assieme ai colori che evocavano i riflessi, le fioriture tenui, i fremiti di rugiada, le rarefazioni di nebbia, fino ai contrasti tra bianco e nero naturali, come in un passaggio pittorico del trascolorare della luce nel buio.
E poi ci vi erano i classici tessuti dell’Alta Moda, dove organza, duchesse, mikado e tulle si trasformavano con le tecniche sartoriali in materiali scultorei o in velature delicate, che sostenevano pieghe, sovrapposizioni e curve sinuose.
Un succedersi di proporzioni perfette, espressioni dell’intelletto del sapere fare di questa Maison che punto dopo punto si sono tradotte nel ritorno a quella dimensione universale in cui l’uomo è parte di un progetto e diventa cuore narrante di una collezione.
E sotto la volta della Galleria dei Caracci, dove mito, natura cultura e rinascita si intreccia nei celebri affreschi come in un complesso programma iconografico e iconologico si è concentrato l’epilogo, che ha visto sfilare le creazioni dove il ricamo era l’elemento metanarrativo che dava forma a geometrie e cornici, che irrompevano per un nuovo ordine delle cose, senza infrangere le regole.
di Alberto Corrado