L’opera di Modest Musorgskij, nella sua prima versione, inaugura la stagione del Teatro alla Scala con Ildar Abdrazakov, baritono immenso, che coniuga una perfetta sintonia con la direzione del Maestro Riccardo Chailly e la regia di Kasper Holten.
“La battaglia per stabilire chi decide cosa sia la verità è in questa opera intimamente connessa a quella per il potere”
Kasper Holten
Il teatro può trasformare la storia in una parabola che spinge pubblico e interpreti a riflettere sulla natura oscura del potere. Sembra questo l’impegno che ha lanciato il Teatro alla Scala e il Maestro Riccardo Chailly, direttore d’orchestra abituato alla ricerca e allo studio minuzioso delle partiture d’opera, nella messinscena di Boris Godunov, nella prima versione in sette scene presentata da Modest Musorgskij ai Teatri imperiali di San Pietroburgo nel 1869, che ha inaugurato il calendario scaligero.
Il riferimento va alla celebre tragedia storica di Puskin, dedicata alla figura di Boris Godunov, zar acclamato a furore di popolo, ma, soprattutto metafora del potere, visto nella sua degenerazione.
Il Boris Godunov che abbiamo ammirato ieri sera al Piermarini intreccia, grazie al disegno drammaturgico di Kasper Holten, il testo di Puskin e l’arte scenica, come ruolo fondamentale che ci permette di guardare il futuro, e farci riflettere non solo sull’orrore delle guerre che si presentano ai nostri occhi quotidianamente, ma su chi paga veramente il prezzo del potere, gli innocenti.
Il pubblico cosi si è trovato ad essere spettatore, ma anche attore e ostaggio di una storia che Kasper Holten evoca, mettendoci di fronte allo scontro tra la verità dei fatti e quella manipolata, che torna più volte nel corso dello svolgimento dell’opera, attraverso l’intreccio del linguaggio musicale e quello esposto con il canto.
Un racconto in presa diretta, che nei primi venti minuti provoca qualche brivido lungo la schiena, traducendosi in una sorta di docu-drama dove gli spettatori assistono ai litigi e all’inerzia delle autorità, ma anche i sogni di potere e le disillusioni di quegli uomini e donne che cercano una dignità politica per il loro paese e finiscono per scegliere la medesima prospettiva della forza che imputano ai loro avversari.
Al di là della vicenda, al di là dell’intreccio fra cronaca e testo tragico di Puskin, il Boris Godunov di Riccardo Chailly, prima di essere uno spettacolo sfarzoso è un’esperienza che coinvolge da vicino l’ascoltatore, che lo rende a suo modo protagonista, regalandogli ogni attimo musicale a sé stante, grazie all’interpretazione magistrale di Ildar Abdrazakov. Un grande baritono, che conosciamo, ma, anche un dotato attore, che ha catalizzato le persone presenti in teatro, esaltando la centralità del personaggio dell’opera, fino all’ultima battuta.
E invece, il resto della compagnia assolve con correttezza alle metamorfosi chieste dell’alternarsi fra tragedia puskiniana e quella shakesperiana, raccontando le diverse prospettive della vicenda, quella per la lotta per il trono con le loro storie di dolore e voglia di riscatto, e i fantasmi del passato, che ritornano sulla scena e perseguitano i personaggi, fino all’ultimo.
La forza del Boris Godunov dell’apertura scaligera sta tutta nell’intreccio dei linguaggi: musica, teatro e racconto, che nel suo ripetersi e procedere per accumulo di elementi narrati, finisce col coinvolgere lo spettatore, dopo averlo spaventato e angosciato.
Insomma in tempi in cui la realtà della guerra irrompe negli spazi chiusi dei nostri luoghi, l’esigenza e la necessità di rappresentare un’opera come questa, e quella di porci di fronte ad una riflessione sul potere e sull’ambiguità del suo esercizio, che nella opera d’ apertura del Teatro alla Scala, è esposta in maniera corretta, spostando la riflessione dell’assunto: il potere è in mano a chi ha le armi ed esercita la violenza. Un riverbero semplice, ma comunque efficace.
di Alberto Corrado