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Maria Grazia Chiuri continua il suo studio negli archivi della Maison, esplorando quel lungo periodo della storia Dior che ha visto Marc Bohan, direttore creativo che succedette a Yves Saint Laurent, afflitto da una brutta depressione postuma al servizio di leva per la Guerra di Algeria.

Bohan riportò il marchio nella tradizione del suo fondatore ottenendo grande riconoscenza dalle riviste di moda grazie a quel Slim Look del 1961 che fece riscrivere a l’Aurore del 27 gennaio 1961 “ It makes a complete change in fashion, just as The New Look did in 1947”.

A quella prima parte degli anni sessanta si collega Maria Grazia Chiuri stilando una sorta di elementi, che in questo momento post- pandemico stila una sorta di lessico di riferimento, partendo dagli effetti grafici fino a concretizzarsi in color block dal gusto estetico Bohaniano. Il giallo, il verde, il rosso come colori precisi per costruire geometrie mentre il marine, l’arancio e il framboise per immaginare atmosfere estive.

Una palette che si ritrova nel set up della sfilata dove l’artista Anna Paparatti, storica compagna del gallerista Fabio Sargentini, e grande animatrice della scena culturale romana dagli anni 60, ricrea in una sorta di “Grande Gioco” portando soggetti ludici e mandala che riflettono quell’indirizzo progettuale preciso della collezione.

Le piccole giacche sono riavvitate dal fit boxy, e i cappotti sono essenziali, mentre le gonne, i bermuda e gli shorts e gli abiti diventano tutti pezzi di una combinazione variabile per i capispalla.

Il lavoro di Maria Grazia Chiuri è quello di stare lontana di stereotipi che la narrazione della moda talvolta crea soggiogata dal potere commerciale, e di consegnare senza fraintendimenti un racconto femminile attuale, lo stesso che venne sdoganato da Mar Bohan per riportare la Maison in auge, con quello spiccato gusto estetico riconosciuto da tutti nel mondo con il nome di cambiamento. 

 

Di Alberto Corrado