Due vetrine che danno sul marciapiede di Via Sant’Antonio da Padova. Nella prima si scorgono mani laboriose, capi chini su piatti in preparazione e fuochi che vibrano. Un dietro le quinte en plain air dove attori, figuranti e protagonisti provano e riprovano la loro scena. A fianco, l’altra vetrina e la porta d’ingresso. Si entra per godersi lo spettacolo e diventarne parte.
Opera. Creatività e ingegno. Dal 2019 a Torino. Opera. Coraggio e resistenza. Dopo un anno dove tutto e tutti sono cambiati, lo chef Stefano Sforza e la sua brigata non hanno mai spento le fiamme, neanche quelle più intime. “Opera è un inno all’operatività. È una parola dalle molte vesti. Rimanda al lavoro manuale, al “fare” tipicamente artigiano e allo stesso tempo riporta alla mente l’idea di arte, sia essa un dipinto o una scultura. Opera unisce la praticità e la manualità, all’estro e alla creatività. Ed è quello che accade qui ogni giorno”.
Nella sala che nel tempo ha cambiato le sue vesti ma alcuni cenni architettonici rivelano la sua identità, va in scena una danza delicata, un flusso ritmico che travolge e coinvolge. Sconvolge. Scelta di campo precisa dello chef Sforza è quella di non parlare la lingua sabauda tradizionale con vitel tonné, tajarin e lingua col bagnetto. Lui, come chi è in sala, si vogliono divertire. E ci riescono. Applicando, come nel teatro, il metodo Stanislavskij, vivere ed essere quello che rappresentano. Loro sono Opera.
Una cucina che “si fa la mattina al mercato”. Il ritmo sincopato della scoperta e dell’evoluzione. Certo, c’è ispirazione, ma la vera energia arriva dalle materie prime. “Stiamo iniziando anche a coltivare le nostre verdure nell’azienda agricola della famiglia Cometto, la proprietà”. Due i menu di Opera. Un uroboro gastronomico, un cerchio continuo dove l’inizio e la fine coincidono. Uno parrebbe un menu vegetariano, a mio avviso invece, una scelta di campo più precisa e delineata, una verticale di un solo ortaggio. Semplice, pulita, onesta.
“Il primo è stato il pomodoro, poi il cavolfiore e adesso è il carciofo il protagonista” della pièce che lo chef Sforza ha deciso di scrivere e dirigere dall’entrée, dritto dritto fino al dolce. Cinque portate e sotto i riflettori, uno degli ingredienti più tannici della nostra cucina, che ha dato la possibilità di dimostrare quanto sia stato abile nella scelta dei vini il sommelier Carlo Salino, proponendo un bianco ligure, uno sardo, passando poi per un rosso leggero come il Bourgogne Aligotè 2018 di Sylvain Pataille scelto per accompagnare il Carciofo alla brace.
Il menu Opera. Seduttivo, ironico, caparbio e impetuoso. Piccione, banana e curry; tartare di rapa rossa, gelato al burro di arachidi; Sandwich di trota affumicata e il contemporaneo Spaghetto ‘panna’, vodka e salmone, che ricorda il piatto vintage degli anni Ottanta senza però, e qui sta la burla, lo scherzo, l’essere e il non essere dello chef Sforza, l’utilizzo di due fra gli ingredienti iconici della ricetta, niente panna e niente salmone ma olio e la proteina della seppia, uova di salmone e una spruzzata di vodka nebulizzata. E come a teatro, nell’intermezzo fra i primo e il secondo atto, accade sempre qualcosa di non programmato, di speciale e sorprendente. Un brodo di olive, ottenuto dagli “scarti” di lavorazione, yogurt e limone salato incanta e rapisce.
In quello che era prima un refettorio, poi una foresteria e ancora un forno del convento dei Frati Minori, oggi c’è la sala dove Gualtiero Perlo, il maître, scandisce tempi e gesti con un sincrono perfetto. Nel piano sottostante una sala degustazione, e per quegli gli occhi attenti che cercano il particolare, di certo non sfugge, anche se quasi nascosto, un pozzo, la bocca dell’antica ghiacciaia. Gli interni sono frutto di uno studio congiunto dello chef Stefano Sforza, e della proprietà, Antonio Cometto. Insieme hanno deciso ogni dettaglio, il tutto coordinato costantemente dall’esperienza del papà Emanuele Cometto, architetto di lungo corso e dalla mamma e imprenditrice Monica Merzagora. C’è un tocco diabolico da Opera, in contrasto con la genesi sacra del luogo, che viene fuori in quei piccoli, continui e silenti dettagli che seducono tra Creatività & Ingegno.
L’accorgimento di chiedere se ci sono mancini per la mise en place, la carta dell’acqua, dei tè e delle tisane, l’infuso del caffè preparato con l’alambicco e una lettera, su carta pergamena consegnata a fine pasto e sigillata con la ceralacca, proseguono la lirica del nutrimento epicureo di Opera. Creatività & Ingegno.
di Laura Gobbi