Haltadefinizione celebra i 450 anni della nascita di Caravaggio con tre nuovi capolavori in gigapixel conservati alle Gallerie Nazionali di Arte Antica. Verranno effettuate le riproduzioni in altissima definizione del San Giovanni Battista e del San Francesco in meditazione, oltre al celebre Narciso, la cui attribuzione al grande artista è però oggi molto dibattuta, che entreranno a far parte della collezione virtuale (https://www.haltadefinizione.com/image-bank/?mixed=barberini) per dare a tutti la possibilità di fruire gratuitamente delle opere d’arte custodite nei musei italiani, in un momento segnato ancora dall’incertezza sulla riapertura dei luoghi della cultura.
I tre capolavori andranno ad arricchire la selezione di opere del grande artista lombardo già presente sul sito di Haltadefinizione: oltre a Giuditta e Oloferne, anch’esso custodito a Palazzo Barberini, sono infatti presenti altri capolavori conservati alla Galleria Borghese a Roma, alla Pinacoteca di Brera e alla Galleria degli Uffizi (https://www.haltadefinizione.com/image-bank/?mixed=caravaggio).
Grazie a questa particolare tecnologia, il pubblico potrà avere una visione insolita e ravvicinata delle opere, oltrepassando quelli che spesso sono i limiti della visione dal vero, per immergersi con una sorta di lente di ingrandimento nelle dense pennellate a olio di Caravaggio e scoprirne tutti i dettagli, anche i più nascosti. “La digitalizzazione con tecnologia gigapixel o gigapixel+3D permette ai musei di raggiungere diversi obiettivi: da un lato è funzionale al monitoraggio dello stato di conservazione dei dipinti e alle finalità di studio e ricerca, dall’altro aumenta gli scenari di valorizzazione, permettendo, ad esempio, alla collettività di accedere alla visione dei capolavori anche a distanza in forma digitale” racconta Luca Ponzio, fondatore di Haltadefinizione, “a tal proposito, nel 2019 Haltadefinizione ha siglato un accordo per la valorizzazione e promozione delle collezioni statali con il Ministero per beni e le attività culturali e per il turismo. Le tecnologie di acquisizione e di restituzione digitale possono essere applicate a qualsiasi tipologia di oggetto culturale: dipinti, affreschi, manoscritti, statue.”
Il mito classico di Narciso ,giovane cacciatore, che si innamora della propria immagine rispecchiata nell’acqua, conosce numerose rappresentazioni fin dall’antichità, ma la versione di Palazzo Barberini si distingue per l’insolito schema compositivo, concepito quasi come una carta da gioco: la parte inferiore è infatti speculare a quella superiore, come se il pittore l’avesse ribaltata di 180 gradi per ottenere la figura riflessa. La trovata del ginocchio nudo fa da centro di attrazione visiva e l’ampia manica a sbuffo accompagna lo sguardo verso la mano immersa nell’acqua nel tentativo di abbracciare quella forma ingannevole dell’immagine di sé, come narrato nel III libro delle Metamorfosi di Ovidio.
La bocca è dischiusa: è l’apice dello struggimento di Narciso che, resosi conto della natura paradossale del suo sentimento, si lascia morire sulla riva di quella stessa fonte. L’opera, per molto tempo attribuita a Caravaggio, è oggi al centro di un acceso dibattito tra chi vede la mano del Merisi e chi, invece, la ritiene opera del pittore caravaggesco Giovan Antonio Galli, detto lo Spadarino.
In uno scenario tenebroso e arido, San Francesco stringe tra le mani un teschio: sta meditando sulla morte. Ogni dettaglio reca il marchio dell’umiltà e della penitenza, come il saio strappato sulla spalla, il tronco spezzato e la croce di legno grezzo, chiaro rimando alla passione di Cristo. Teschio e croce mediano il dialogo intimo e profondo di Francesco col divino, in una variante iconografica molto diffusa in periodo controriformistico.
É rappresentato in ginocchio, mostrando solo una parte del volto, illuminato strategicamente tra la guancia destra e le rughe della fronte, e ne intuiamo l’espressione assorta e sofferente. La tela è stata rinvenuta nel 1968 nella chiesa di San Pietro a Carpineto Romano e nel 2000 è stata oggetto di un importante restauro, condotto contemporaneamente a quello di un’altra versione del dipinto, quasi identica, conservata nella chiesa di Santa Maria della Concezione, in via Veneto a Roma. Le indagini hanno confermato l’autografia per la tela Barberini e la sua precedenza cronologica, a giudicare dai numerosi pentimenti, tipici non di una copia, ma di una prima redazione. Secondo alcuni studiosi, la data di esecuzione si collocherebbe intorno al 1606, quando Caravaggio, in fuga da Roma dopo l’assassinio di Ranuccio Tommasoni, si rifugia presso i feudi Colonna, vicini a quelli degli Aldobrandini, committenti dell’opera.
Vediamo un giovane San Giovanni Battista senza barba, seminudo e coperto dal mantello rosso, con il bastone a croce poggiato al suo fianco, ma privo della tradizionale pelliccia di cammello. L’artista ha raffigurato un momento di riposo durante la vita di penitenza di Giovanni nel deserto, rispetto all’iconografia tradizionale, però, gli attribuiti del santo sono quasi marginalizzati: la ciotola con cui Giovanni versò l’acqua nel battesimo di Gesù è come privata del suo ruolo sacrale, mentre la croce è appena visibile, nascosta dal bordo del dipinto. In questo modo Caravaggio ha attualizzato la rappresentazione del giovane Battista nel deserto, conferendo maggiore immediatezza a un tema che si era più volte prestato a interpretazioni in cui si mescolano sacro e profano.